Ripenso alla mia professione, e ritrovo una riflessione fatta nel 2004, con cui voglio iniziare oggi il
mio di pensiero.
“Alla sera, al termine delle mie giornate di lavoro in ospedale, mi fermo a riflettere sulle mie
impressioni di quelle giornate vicino ai pazienti. Mi accorgo che sto crescendo con le loro
emozioni, sensazioni, con i loro discorsi e i loro vissuti. La stanchezza è tanta, ma so che devo
scrivere tutti questi pensieri, perché così li farò vivere per sempre.
Pensandomi, mi accorgo di quante sfumature dell’essere infermiera ho vissuto, visto che ho iniziato
la scuola per infermieri a 17 anni, ancora bambina, sicuramente non sufficientemente matura per
comprendere la malattia e la sofferenza. Ripenso al primo ospedale, che ho conosciuto come
studente, fortemente condizionato da una componente religiosa, che improntava notevolmente la
professione, dandole quasi un significato di “vocazione”. L’obiettivo della scuola era quello di far
diventare delle “brave” infermiere, e per “brave” intendo obbedienti, rispettose di un forte potere
decisionale medico, capaci di assistere e con abilità tecniche per essere operative nella terapia e
negli esami diagnostici; ricordo il quaderno dei miei appunti di infermieristica: un insieme di
infinite indicazioni su come fare una cosa o fare l’altra, ma sempre e solo delle risposte, mai una
domanda, ma allora non sapevo l’importanza delle domande. Ricordo di un prendersi cura dello
studente più dal punto di vista tecnico, che emozionale, come se ci fosse una grande fiducia nella
capacità di rielaborazione delle esperienze, che sarebbe arrivata con la maturità. Al mattino,
accanto al briefing, c’erano le preghiere dell’inizio giornata con la caposala che era,
generalmente, una suora, e con la suddivisione dei compiti quotidiani. Il de-briefing era il sorriso
della tutor, il suo esserci vicina nei primi passi professionali, la parola di conforto quando si
incontravano le difficoltà.
Ripenso al mio primo incarico, in un ospedale gestito completamente da suore: la terapia delle ore
sei poteva aspettare, l’importante era preparare bene i pazienti per la Comunione. Un po’ mi
ribellavo a questa mentalità ma non avevo la forza di oppormi. Oggi mi rendo conto che non avevo
la forza perché mi avevano formata ad essere così.
La scuola mi aveva formata ad essere preparata nell’assistenza, diligente e rassicurante per il
paziente, che apprezzava la mia disponibilità, per il medico, che apprezzava il mio tacito operare, il
mio non fare domande e il mio “expertise”, o agire pratico dato dall’esperienza, che stavo
accumulando.
Fortunatamente i tempi stanno cambiando ….”
Ho voluto riportare alcune righe di questa riflessione per far comprendere il cambiamento, che
l’infermieristica ha avuto negli ultimi 20 anni. Cambiamento in gran parte data dalla formazione
universitaria, che ha saputo trasformare la professione, riconoscendole quel valore intellettuale, che
sul campo la rende parte attiva del processo di cura. L’infermiere di oggi è un infermiere
responsabile della propria competenza, del proprio ragionamento clinico, della propria
pianificazione assistenziale, della propria formazione continua. Un infermiere che tiene fede alla
consapevolezza che la cura dei pazienti richiede aggiornamento continuo, al fine di agire
un’assistenza sicura e appropriata.
Oggi, però, è giusto chiedersi se e come sia cambiata l’infermieristica dopo 3 anni di pandemia, che
non solo hanno sconvolto il mondo, ma hanno fatto conoscere l’universo emozionale.
La pandemia ha fatto emergere l’importanza di chi si prende cura dell’altro. L’infermiere, come
tutti gli altri ruoli sanitari, ha saputo gestire tutto l’universo emozionale proprio e altrui, garantendo
la sua presenza, e mettendo a disposizione la sua competenza e la sua esperienza, nell’incertezza di
una situazione sanitaria non conosciuta e non sicura. Mi chiedo se ci fosse proprio bisogno di
questo coraggio, chiamato “eroismo”, per far comprendere all’opinione pubblica il valore della
professione infermieristica. Ma, si sa che ci vuole sempre un eroe per fa accettare il dramma in tutte
le sue dimensioni.
Tuttavia, il dubbio che sovviene è che questo “eroismo” non abbia dato solo un senso di coesione
alla comunità, ma dall’altra parte abbia fatto passare in secondo piano le disfunzioni dei sistemi
sanitari, trasformando la situazione drammatica in “un’avventura” (termine che non vuole
assolutamente banalizzare), in cui l’eroe si trova a combattere contro un nemico, in questo caso il
COVID -19, che avrebbe avuto un lieto fine e “tutto sarebbe andato bene”.
Per gli infermieri quel “tutto andrà bene” ha significato generosità, altruismo, coraggio, forza di
volontà, malattia, e questo non ha nulla a che vedere con l’eroismo, ma con la professionalità, la
competenza, la responsabilità e la dignità di ruolo.
Nel primo anno di pandemia l’infermiere ha curato, trasformandosi nel figlio o figlia, moglie o
marito di ogni paziente, che in solitudine affrontava la malattia, o la fine della sua vita. Ha
rinunciato alla vita privata, anteponendo il bene pubblico alla famiglia e al riposo.
Eppure, l’opinione pubblica, è riuscita con la velocità della luce a passare dal termine “eroi” a
quello del “dovere per scelta”.
Sicuramente la pandemia ha lasciato i sentimenti più diversi: da una parte il ricordo della complicità
nella paura, dell’essere una squadra unita, dell’abbraccio protetto, quando non era permesso
nemmeno darsi la mano, dall’altra, purtroppo, un riconoscimento della professione e della sua
importanza, svanito velocemente. E, oggi, stiamo portando forse più le cicatrici di questo ultimo
aspetto.
Cicatrici, che si manifestano:
- con la diminuzione importante del numero di giovani che vogliono intraprendere le
professioni di cura, professioni che richiedono turnistica, che comportano tempo libero a
rischio e carichi di lavoro importanti; - con l’abbandono della professione infermieristica da parte degli stessi infermieri. La
pandemia è riuscita a mettere in discussione la forza della motivazione professionale: chi
sente veramente i valori della professione rimane, chi ha scelto la professione per altri
obiettivi, non regge il carico fisico ed emotivo dell’assistenza; - con la scelta degli infermieri di lasciare l’Italia per andare verso paesi esteri, dove la
professione infermieristica è economicamente più riconosciuta.
Non posso terminare senza citare Florence Nightingale, colei che ci ha fatto conoscere la
professione di cura, ricordandoci che “l’assistenza è una delle “belle arti”, la più bella delle belle arti. - Richiede devozione e preparazione come per qualunque opera di pittore o scultore, con la
differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo , ma con il corpo umano..”